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«Nella solitudine la meditazione può aiutare a ritrovarci»

Di Walter Veltroni, dal Corriere della Sera del 10 novembre 2020

Di Gianfranco Ravasi, cardinale, presidente del Pontificio consiglio per la cultura e del «Cortile dei gentili», mi ha sempre affascinato la tripla dimensione del suo pensiero: profondità, apertura, curiosità intellettuale per ogni forma di creazione umana.Mi vengono in mente il Cardinal Martini o Umberto Eco che hanno sempre amato cercare e dialogare. Il suo ultimo libro Scolpire l’anima contiene 365 brevi meditazioni quotidiane che sono un piacere per ogni lettore, di qualsivoglia convinzione.
Cosa è accaduto durante il lockdown?
«Un elemento positivo del primo lockdown è stato riuscire a rimanere un po’ più fermi. È il tema della meditazione, del ritrovarsi. La solitudine permette lo spazio della riflessione rispetto alla concitazione della vita quotidiana. E si è elaborato il rapporto con la morte, improvvisamente comparsa come elemento fattuale, non come rischio lontano. Il romanzo La peste di Albert Camus pone non per caso, mentre tutto sembra precipitare, il problema del senso, del significato della vita. Guardi anche cosa ha rappresentato dal punto di vista simbolico, non dico religioso, la sera del 27 marzo in cui papa Francesco parlò nella Piazza San Pietro deserta. Cosa è stato per tutti, anche per i non credenti. La coscienza degli altri, della loro assenza, della loro necessità. E poi le regole, che gli italiani hanno responsabilmente seguito per mesi. È stato un periodo positivo che faceva sperare in un mutamento. Ma ora, con la seconda ondata, tutto sembra mutare. Si avverte un’atmosfera di irrazionalità nelle reazioni, anche nella virulenza delle critiche al governo. Purtroppo non ci sono voci autorevoli che possano far vedere la strada, un disegno di convivenza. Norberto Bobbio non c’è, Norberto Bobbio scriveva l’Elogio della mitezza. La mitezza non è debolezza, semmai la violenza è segno di sconfitta della ragione. Nei momenti più duri si sente il bisogno delle voci più alte. Pensi all’immediato dopoguerra, al coraggio e alla responsabilità di quella generazione di politici divisi anche ideologicamente ma capaci di scrivere la nostra Costituzione».
Che rapporto c’è tra la pandemia e i social?
«Se il Covid fosse accaduto venti anni fa sarebbe stato molto diverso. Oggi siamo nell’infosfera. Marshall McLuhan, agli albori della civiltà dei media, ha parlato di “Extension of man”, l’estensione dell’uomo. Lui giustamente faceva notare che eravamo già allora in un’epoca in cui gli organi nostri si allungavano: tele-fono tele-visione tele-scopio. Potevamo arrivare dove non era possibile prima. Ancor di più oggi. Quello che ora sta accadendo è, invece, il mutamento di un’atmosfera, dei parametri di sguardo e intervento sulla realtà. Quando Galileo guarda col telescopio i pianeti medicei non scopre solo qualcosa di particolare nel cosmo, ma introduce la rivoluzione copernicana che è il cambio radicale della consapevolezza del mondo. Noi stiamo vivendo la quarta rivoluzione dopo la copernicana, la darwiniana, la psicanalitica. Una rivoluzione che cambia la nostra relazione con gli altri e forse con noi stessi».
Distanziati si vive male. C’è il rischio che la solitudine, esasperata dall’incertezza sociale per sé e per i propri figli, possa trasformarsi in disperazione?
«Si possono distinguere due volti della solitudine, il primo volto è che essa è una sorta di dieta dell’anima. L’abbiamo praticata nel primo lockdown e serviva a ritrovare motivazioni interiori e a sfuggire al rischio di diventare infoobesi. L’autore di Lolita, Nabokov, in un’altra sua opera, parla della solitudine come del campo di gioco di Satana. La solitudine, dimensione anche di libertà, è il luogo in cui arrivano, però, anche le pulsioni perverse della persona e può tendere a trasformarsi pericolosamente in isolamento sociale. Nell’enciclica Fratelli tutti il Papa cita Vinicius de Moraes:
“La vita, nonostante abbia tanti scontri, è l’arte dell’incontro”. Questa cultura, la ricerca dell’altro, la sua accoglienza, la comprensione reciproca è sostituita oggi da quella dello scontro. L’egoismo nasce dalla paura soprattutto e quando diviene isolamento può generare disperazione e violenza. La violenza è la cancellazione dell’altro, è ridurti ad essere solo. Bisogna ricostruire un vivere sociale, un’idea di comunità come alternativa alla solitudine e, peggio, all’isolamento. Lo diceva un sociologo americano: da quando i tetti si sono infittiti di parabole si sono moltiplicate le porte blindate. Qui torna il compito delle religioni o comunque della cultura. Oltre il cibo, del fisico o della mente, c’è la relazione diretta, quella umana, quella fatta di pelle e parole. La visita agli ammalati, la lotta tenace contro l’isolamento delle persone è forse il compito delle persone di buona volontà, in questo tempo caotico».
«Distanziamento sociale» è un ossimoro…
«A proposito di ossimori ce n’è un altro, quello della “presenza assente”. Pensi cosa questo vuol dire nella relazione d’amore. L’autentica relazione d’amore di due innamorati è fondata sulla presenza, una presenza esclusiva, radicale, totale. Se viene meno, ti disperi. Tuttavia è una presenza nella quale, quando si è veramente innamorati, tu riconosci all’altro una sorta di sacralità, di distanza, che permane. In Gibran sono i due alberi vicini ma non tanto da impedire all’aria di passare. Ma questo vale per l’intera società. I venti dello spirito, che circolino e ci cambino, in un regime di presenza assenza: è questa la tipologia autentica della relazione umana. Ora il pendolo si è spostato. La presenza era una delle componenti della società del passato che aveva molte più relazioni dirette, fisiche. Adesso sono per lo più virtuali, e il lockdown ha enfatizzato questa dimensione. L’assenza è così marcata al punto tale da far diventare l’altro che tu non conosci un altro da te. Il distanziamento genera, alla fine, lontananza e sospetto nei confronti dell’altro. Compreso il fastidio di ascoltare le ragioni dell’altro, di ragionare sulle sue idee. Si vede bene nei dibattiti televisivi: urla, non la volontà di capire e dialogare. Qui entra il tema della scuola. La scuola come presenza fisica è indubitabilmente una realtà necessaria e il discepolato è sempre avvenuto vedendo persino la connotazione del volto e del corpo del maestro. L’implicito, non solo l’esplicito. Il gioco degli occhi, degli accenti, dei toni tra docente e discente è parte del processo
educativo come lo è la relazione pari, quella orizzontale, col compagno di classe. Che è una persona, non un volto in un video. Distanziati si vive male. E per quanto sia necessario in questo momento noi dobbiamo alimentare la speranza di un ritorno alla normalità delle relazioni umane e intanto alimentare questa fase di ascolto, incontro, parola. Questo vale anche per la Chiesa. Ho provato a celebrare messa in collegamento ma è un’altra cosa, non è più l’assemblea calorosa, il ritrovarsi. Gli ebrei nell’Antico Testamento quando devono rappresentare il tempio lo definiscono Ohel mo’ed che vuol dire letteralmente “la tenda dell’incontro”, dell’incontro con Dio e con gli altri. Come era chiamata l’assemblea riunita? In ebraico Qahal. Che vuol dire convocazione. Come l’hanno tradotta i greci? Ekklesia, chiamati insieme. La Chiesa è doppio incontro, con Dio e con gli altri».
La nostra generazione ha vissuto sulla base di due convinzioni: che domani sarebbe stato meglio di ieri, che fosse possibile cambiare il mondo. Oggi è la paura l’elemento dominante. Dove può finire un mondo senza speranza?
«Questa è veramente una delle domande radicali che bisogna porsi. Io come matrice sono legato a Pascal che scriveva la famosa frase “l’uomo supera infinitamente se stesso”. È avvenuto — per parlare in termini simbolici — con l’evoluzione, quando avevamo il primate che con la zampa aggrediva l’altro perché gli toglieva lo spazio. Ad un certo momento, mentre sta per aggredire un suo simile, guarda in alto, vede le stelle, si ferma a guardarle e diventa l’uomo. Tutto aiuta gli esseri umani a guardare oltre. Pensi la scienza stessa, faccio tre esempi: la genetica con l’intervento sulla flessibilità del Dna che certo aiuta, ed è una meraviglia dell’uomo per l’uomo, a combattere patologie terribili ma, al tempo stesso, può postulare la possibilità di creare un nuovo fenotipo antropologico. O pensi alla potenza delle neuroscienze: ora se noi apriamo la nostra scatola cranica, la mettiamo in una notte in parallelo alla nostra galassia, scopriamo che in 120, 180 grammi di materia grigia, abbiamo dagli 80 ai 100 miliardi di neuroni e che, dall’altra parte, sono 100 miliardi le stelle della Via Lattea, della nostra galassia. Se si agisce sul rapporto tra cervello e mente si
finisce col ridefinire il modello di essere umano. Terzo: l’intelligenza artificiale. Diceva John Searle che i computer conoscono la sintassi ma non la semantica, cioè sanno fare, ma non sanno quello che fanno. Ma ora lo sanno, o lo stanno imparando. Lungo quali direttrici si va affermando l’autocoscienza delle macchine? Esiste il rischio del quale parlava Fromm: “Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che diventino robot”. Non sono questi grandi temi roventi per il pensiero religioso, filosofico, politico? E per alimentare nuove razionali speranze? Il poeta Charles Péguy dice: “Sperare a testa bassa ogni giorno è la cosa più difficile, disperare è la tentazione”. La speranza è la seconda delle virtù cardinali: fede, speranza, carità. Péguy la rappresenta così: è la sorella più piccola, le altre sono più alte, forse più importanti. Cosa succede? Succede come quando due genitori stanno camminando per strada, incontrano uno e si fermano a parlare, oppure si fermano davanti ad una vetrina. Il bambino piccolo che cosa fa? Tira, li fa muovere. Se non ci fosse la speranza fede e carità non andrebbero avanti. Non avremmo il futuro».
Nel nostro tempo tutto è frammento ed è istante, il presentismo in cui tutto si consuma. Come si può ricostruire il senso della storia, della profondità, della memoria per progettare il futuro, l’unico luogo in cui siamo diretti?
«Noi adesso siamo davanti ad una civiltà tendenzialmente smemorata: non ha speranza nel futuro e non guarda al passato. Il che vuol dire che ha un presente frammentato, vuoto. “Ricordare” è “riportare al cuore”, quindi è un’esperienza. Giorgio Pasquali nel suo Filologia e storia scriveva che chi non ricorda non vive. L’Alzheimer, malattia del nostro tempo, non ti cancella solo la memoria, ti cancella la vita. Culturalmente questo appiattimento unidimensionale del tempo è cominciato con la messa in discussione della famosa storia delle radici cristiane in Europa. Secondo me la Chiesa allora si è mossa male perché ha continuato ad affermarne questo valore esclusivamente per la questione religiosa, mentre era un problema squisitamente culturale, socio-culturale. Se si rimuove quel passato glorioso alla fine ci disperdiamo nel particolare, nella banalità, nell’ovvietà, nella superficialità, nell’indifferenza, nella stupidità. È vero il motto della tradizione rabbinica che afferma “il sapiente sa quel che dice, lo stupido dice quel che sa”. La memoria non è l’adorazione delle ceneri, è tenere viva la fiamma. Torna decisiva la scuola come luogo di riconnessione. Quale è la radice etimologica di educazione? Educere, tirar fuori, estrarre e poi riconnettere. Secondo la cultura indiana l’esistenza di una persona è fatta di quattro tappe. C’è il tempo in cui si impara, il tempo della fatica, del giudizio. Il secondo momento è l’insegnare, essere genitore, maestro. La parola sapienza deriva dal latino sàpere che vuol dire “avere sapore”, gusto, potremmo dire il senso del conoscere. La terza è la tappa del bosco, cioè ritirarsi all’ombra, essere capaci di trovare anche nella solitudine, la capacità di riflettere, ritrovare la parola che ha senso, ritrovare un po’ più se stessi. Chi ha il coraggio di dire oggi che a un certo punto della vita bisogna fare l’esame di coscienza? Non lo dicono più neppure i preti… II quarto è il momento in cui si diventa mendicanti, quando si ha bisogno degli altri. Nella vecchiaia tu ritrovi la relazione che prima hai vissuto da signore, qui la vivi invece da persona umile, da povero. Questi quattro elementi secondo me costituiscono un po’ la maturità nel suo insieme e non sono necessariamente successivi l’uno all’altro. Credo che per creare questa unità di conoscenza e non la frammentarietà del “presentismo” si debba vivere un’esperienza umana completa».
Internet è stata una rivoluzione, con connotati democratici. Ma da rete è diventata una somma di recinti che non comunicano…
«La questione della rete in cui è avvolto tutto il globo è il vero mutamento del modello antropologico, perché cambiano i codici di conoscenza e relazione. Torno sempre sulla scuola, che considero centrale. Possibile che non si insegni ai ragazzi la consapevolezza di un mondo nel quale passano buona parte della loro vita? La configurazione della guida critica all’uso del computer? Ricordo un episodio personale molto suggestivo, Mario Luzi è stato mio amico. Quando passavo da Firenze andavo a trovarlo e dopo cena camminavamo sul Lungarno. Una sera lui mi fece notare le luci accese nelle case. Otto su dieci avevano all’interno un riquadro azzurrognolo, il colore delle televisioni in funzione. Luzi mi disse: “Non si capisce se questa gente è lì dentro con le mani alzate in segno di resa o di adorazione”. Oggi ancor di più davanti allo schermo del computer. Resa o adorazione, con i risultati che ben sappiamo. Spaventa quello che è racchiuso nel mondo delle fake news, delle alterazioni della realtà, della spietatezza degli algoritmi. La rete poteva diventare uno straordinario strumento di democratizzazione ma ora è stata sequestrata dalle mega corporation che inducono linguaggi e comportamenti. Un sistema di dominio che è anche etico e morale».
La questione ambientale è praticamente scomparsa dal discorso pubblico se non per merito di una bambina svedese che ha mosso milioni di suoi coetanei…
«Sì, dobbiamo dire che su questo l’impegno della politica è stato veramente molto ridotto se non vergognoso nella incomprensione dell’urgenza e della dimensione globale di questo problema. Il messaggio più alto è stato quello della Laudato si’ di papa Francesco. È un tema che le nuove generazioni hanno imposto, che ha scosso la loro coscienza. Si sono dimostrati più consapevoli loro del pericolo che incombe sul destino dell’umanità rispetto alle nostre generazioni, figlie del modo di pensare della rivoluzione industriale. La religione per me ha qui un grande compito. Non so se è facile trovare un libro religioso, sacro, così ricco di animali, di vegetali, che dà un rilievo così importante alla creazione, alla luce, al cibo come la Bibbia. È un tema sul quale le coscienze, stimolate dai giovani, dovrebbero marciare con coraggio e forza».
Gesù non ha mai scritto se non delle parole, che non conosciamo, vergate sulla sabbia nell’episodio dell’adultera. Se venisse oggi sulla terra cosa scriverebbe?
«Noi non sappiamo neppure se Gesù sapesse scrivere, qualche esegeta ha immaginato che sulla sabbia abbia tracciato solo segni. Sappiamo però che sapeva leggere. Nella sinagoga di Nazareth egli prende il rotolo di Isaia, lo srotola, lo legge e lo commenta. Se Cristo oggi dovesse scrivere ancora qualcosa che sia immediatamente comprensibile a tutti io credo che lo farebbe in una lingua comune (allora era il greco) o popolare, com’era allora l’aramaico. Scriverebbe: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ama anche la terra come te stesso, potremmo aggiungere oggi. Forse potrebbe continuare con ciò che disse l’ultima sera della sua vita terrena, nella sala al piano superiore di una casa di Gerusalemme, nel cenacolo per l’addio: “Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama” (Giovanni, 15,13). Questa è forse utopia? Ma se le religioni non avessero l’utopia a cosa servirebbero? Non possono essere utili solo a registrare il reale. Ma c’è però anche un’utopia concreta, in quelle parole che Cristo forse oggi scriverebbe. Infatti un genitore che sta per annegare col figlio e ha la possibilità di aggrapparsi a qualcosa salva prima il figlio di se stesso.
“Ama il prossimo tuo come te stesso” e non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama. Proprio questo scriverebbe oggi Gesù Cristo».
«Cosa scriverebbe oggi Gesù? Ama il tuo prossimo Forse oggi potremmo aggiungere ama anche la Terra»

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