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La vita sacramentale in tempo di pandemia

di Cesare Giraudo s.J. *

La fede e il contagio

In questa pandemia sfuggita al monitoraggio dei veggenti più agguerriti, in questo tempo di martellanti inviti a restare in casa, di chiese conseguentemente vuote e di sacerdoti messi in pausa, se qualcuno pensa che dei sacramenti si può fare a meno come si fa a meno di tante cose, altri invece ne avvertono la mancanza. Astenendomi dal portare un giudizio su chi coglie l’occasione dalla presente congiuntura per professare il suo disimpegno religioso, vorrei entrare nei sentimenti di quanti si sentono privati di un bene necessario.

Per chi è convinto della propria fede, i sacramenti sono indubbiamente un bene di cui non si può fare a meno, come l’aria che respiriamo e l’alimento che ci nutre. Un teologo bizantino del XIV secolo descrive i sacramenti come «porte di giustizia», vale a dire come una sorta di portali attraverso i quali dobbiamo passare per essere giustificati, cioè salvati. Con questa espressione figurata egli si riferisce ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, che sono il Battesimo, la Cresima e l’Eucaristia. Prescindendo dai primi due che si ricevono una sola volta, vorrei applicare l’immagine, che resta valida per l’Eucaristia, anche al sacramento della Confessione. Mi soffermo di proposito su questi due sacramenti che possiamo definire «viatici», giacché scandiscono la vita del cristiano ancora «in via».

Appuntiamo la nostra attenzione anzitutto sull’Eucaristia, che Gesù ha istituito nell’Ultima Cena. Se ci fossimo trovati quella sera nel cenacolo in compagnia degli apostoli e di quanti erano con loro, non avremmo certo potuto immaginare l’entità del dono che il Signore si apprestava a fare, un dono che, se non fosse stato rivelato, mai mente creata avrebbe potuto supporre come possibile, né immaginare come fattibile, né sperare come fruibile. Un anonimo del VI secolo presenta l’Eucaristia come «il sacramento dei sacramenti», cioè il sacramento che supera di gran lunga tutti gli altri. Mentre nel Battesimo e nella Cresima a produrre l’effetto sacramentale sono rispettivamente l’acqua che rimane acqua e l’olio che rimane olio, invece nell’Eucaristia non sono il pane e il vino a trasformarci nel corpo ecclesiale, bensì la reale presenza del corpo e del sangue del Signore sotto il velo conviviale del pane e del vino. È questa, non un’altra, l’Eucaristia che Gesù ha istituito, quella appunto che, in obbedienza al comando «mangiate» e «bevete», comporta la comunione sacramentale al pane e al vino transustanziati nel corpo sacramentale. Fu dunque questa per secoli l’unica forma di comunione ad essere conosciuta e praticata nella Chiesa.

Più tardi, a partire dal XII secolo, si comincia a parlare anche di comunione spirituale, ma non ancora nel senso in cui la intendiamo oggi. Nel periodo successivo all’eresia di Berengario, che negava la presenza reale nell’Eucaristia, compaiono le denominazioni correlate «mangiare con gli occhi» (manducatio per visum) e «mangiare con la bocca» (manducatio per gustum). La prima denominazione, detta talvolta spiritualis manducatio, si comprende bene alla luce di quella ricca fioritura di gesti e di riti che sorgono intorno all’elevazione dell’ostia consacrata. Alla comunione sacramentale, ritenuta troppo onerosa, molti preferiscono la contemplazione dell’ostia, cui attribuiscono poteri miracolistici, quali la preservazione da disgrazie e da morte improvvisa. Per fortuna, a sostegno dei predicatori illuminati che condannano come superstiziose simili convinzioni, sta la grande scuola.

San Tommaso insegna che la comunione sacramentale (sacramentalis manducatio), che però limita alla materiale recezione del corpo sacramentale, non produce il suo effetto se non è accompagnata da una comunione spirituale (spiritualis manducatio), ossia da quei sentimenti spirituali che sono le buone disposizioni. Potremmo dire che con queste precisazioni san Tommaso non fa che mettere in rilievo un’evidenza. Parimenti evidente è l’equiparazione, che lo stesso Tommaso stabilisce, tra la comunione di desiderio e il battesimo di desiderio: come l’uno anticipa gli effetti del battesimo con l’acqua allorché questo sarà somministrato, così l’altra anticipa gli effetti della comunione sacramentale quando questa sarà ricevuta. Tuttavia nel pensiero di Tommaso la recezione di desiderio e la recezione di fatto restano tra loro intimamente legate. Sulla stessa linea si muovono il concilio di Trento e il Catechismo tridentino che ne divulga il pensiero in chiave pastorale.

Ora, per far avanzare la riflessione, occorre svincolare la recezione di desiderio – ovviamente del sacramento – dalla recezione di fatto. È quanto accade in situazioni di emergenza: come il battesimo di desiderio conferisce la dignità di cristiano al catecumeno che, per il sopraggiungere della morte, non ha potuto essere battezzato con l’acqua, così la comunione di desiderio produce tutti gli effetti della comunione sacramentale in chi, a motivo di un’emergenza, non può avvalersi della forma normale. Ritengo importante sottolineare la situazione di emergenza, nella quale all’impossibilità di percorrere la via normale supplisce la scorciatoia, quella precisamente che si suole esprimere con il detto supplet Ecclesia, che significa «supplisce la Chiesa».

Dalla storia risulta che la mancata distinzione tra situazione normale e situazione di emergenza ha fatto sì che la comunione sacramentale venisse oscurata dall’eccessiva e spesso unilaterale insistenza sulla comunione spirituale. A ciò hanno contribuito una concezione della vita cristiana di tendenza giansenistica e una prassi tuzioristica: l’una fissata sulla fondamentale indegnità dell’uomo di fronte all’augusto sacramento, l’altra ossessionata dal timore di fare comunioni sacrileghe. Diciamocelo chiaramente: se aspettassimo di essere degni, la comunione non la faremmo mai. È pure questo il messaggio che emerge dalla monizione che il sacerdote orientale fa prima della comunione: «Le cose Sante sono per i Santi» (Sancta Sanctis). Due sono le interpretazioni. La prima: «Le cose Sante sono destinate ai Santi», cioè a quanti, esaminando sé stessi, già si sforzano di adeguarsi all’ideale evangelico; la seconda: «Le cose Sante sono fatte per farci diventare Santi», cioè per adeguarci sempre meglio all’ideale evangelico. Se è importante notare che le due interpretazioni sono ugualmente possibili, ancora più importante è precisare che esse sono inseparabili e complementari. Importante è soprattutto vegliare a che la prima sfumatura non venga disgiunta dalla seconda, giacché è proprio la seconda a precisare il senso della prima, sotto il profilo teologico, spirituale e pastorale.

Se in situazione di emergenza siamo costretti a prendere la scorciatoia, cioè a far ricorso alla comunione spirituale, non dimentichiamo che, non appena tornerà la normalità, dovremo riprendere la via maestra della comunione sacramentale, quella vera, quella che il Signore ha istituito, non certo per gli angeli, ma per noi che camminiamo curvi sotto il peso della vita. In questo tempo di pandemia, che per molti versi evoca un mondo in agonia, di una cosa dobbiamo essere certi, ed è questa: che la nostra trasformazione – o meglio: la nostra «transustanziazione», come giustamente la definisce un teologo medievale – da sostanza di divisione, quale siamo nel quotidiano, a sostanza di Chiesa, quale si compie in forza della comunione al pane e al vino transustanziati nel corpo e nel sangue del Signore, Dio non mancherà di realizzarla attraverso la nostra comunione spirituale. In ogni caso non sta a noi verificarne il compimento. Il Signore, da buon contabile qual è, non mancherà di annotare nel registro che egli solo detiene il nostro ardente desiderio di riceverlo sacramentalmente.

Concludo con un cenno all’altro sacramento «viatico», cioè alla Confessione. Ma qui cedo volentieri la parola a Papa Francesco, che nell’omelia a Santa Marta di venerdì 20 marzo 2020, pur senza nominarla, parla di quella scorciatoia per ottenere il perdono che è l’atto di dolore perfetto. Così Francesco si è espresso: «Io so che tanti di voi, per Pasqua, andate a fare la Confessione per ritrovarvi con Dio. Ma tanti mi diranno oggi: “Ma, padre, dove posso trovare un sacerdote, un confessore, perché non si può uscire di casa? E io voglio fare la pace con il Signore, io voglio che Lui mi abbracci, che il mio Papà mi abbracci… Come posso fare se non trovo sacerdoti?”. Tu fai quello che dice il Catechismo. È molto chiaro: se tu non trovi un sacerdote per confessarti, parla con Dio, è tuo Padre, e digli la verità: “Signore, ho combinato questo, questo, questo… Scusami”. E chiedigli perdono con tutto il cuore, con l’Atto di dolore, e promettigli: “Dopo mi confesserò, ma perdonami adesso”. E subito tornerai alla grazia di Dio. Tu stesso puoi avvicinarti, come ci insegna il Catechismo, al perdono di Dio senza avere un sacerdote “a portata di mano”. Pensateci: è il momento! Questo è il momento giusto, il momento opportuno. Un Atto di dolore ben fatto, e così la nostra anima diventerà bianca come la neve. Sarebbe bello che oggi nei nostri orecchi risuonasse questo “torna”, “torna dal tuo Papà, torna da tuo Padre”. Ti aspetta e ti farà festa».

* docente emerito di Liturgia e Teologia presso il Pontificio Istituto Orientale

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