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La tentazione del miracolo

di Giuseppe Lorizio *

La fede e il contagio

Pregare perché Dio allontani il flagello della pandemia o perché la nostra fede sia rinnovata e susciti la comprensione di modi e stili nuovi dei credenti in questo tempo?

A quanti chiedevano una processione solenne per impetrare il miracolo della fine della peste, il cardinal Federico rifiutò per molte ragioni (cap. 32 de I promessi sposi). Innanzitutto, perché «gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario», inoltre «temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto… la fiducia si cambiasse in iscandolo». Infine, un assembramento di persone avrebbe favorito il contagio. Infatti, così fu, quando cedette. Il tema è delicato e richiederebbe approfondita riflessione. Il servizio ecclesiale del teologo è chiamato in causa, né può sottrarsi all’ingrato compito di pensare e far pensare, nuotando contro corrente e profeticamente mettendo in guardia dall’incombente deriva superstiziosa e magica di atteggiamenti miracolistici e fideistici, che finirebbero per alimentare l’incredulità. A rischio di restare inascoltato («nessuno è profeta in patria!», Mc 6,4) o peggio frainteso, sarebbe oltremodo deleterio assecondare o addirittura promuovere comportamenti che nulla hanno a che vedere con la fede autentica e con la devozione sincera.

Sul tema del miracolo pesa l’invettiva del pensatore ebreo Franz Rosenzweig, «in theologos», contro quei teologi che col loro razionalismo uccidono il «figlio prediletto della fede», che è appunto il miracolo. Allora, piuttosto che cedere alla tentazione di sopprimerlo, si tratterà di coglierne il senso profondo, onde purificare le espressioni religiose da superstizione e magia. Queste ultime sono esattamente il contrario del credere autentico, che si esprime nella preghiera e nella devozione del popolo di Dio. Se infatti, mettendo in atto strategie atte a suscitare interventi portentosi, si tenta di piegare il divino al proprio volere con atteggiamento pagano ed idolatrico, la preghiera autentica, così come vissuta da Gesù di Nazareth nel Getsemani, mentre invoca l’allontanamento del calice amaro della sofferenza e della morte, termina (e qui sta il suo senso) nell’affidamento alla volontà del Padre, nelle cui mani il Crocifisso affiderà il suo spirito.

Fra i vari significati del termine «miracolo», portento, intervento del soprannaturale, sospensione delle leggi della natura e del corso della storia, non possiamo dimenticare che il Nuovo Testamento privilegia quello del «segno». E in tale prospettiva è Gesù stesso ad indicare il senso della sua presenza nella storia attraverso una serie di segni, che elenca ai discepoli di Giovanni, che chiedevano: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?»: «I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,2-6; Lc 7,18-23). Allo stesso modo il racconto della tempesta sedata, recentemente riproposto in questo momento così drammatico, ad altro non giunge, se non alla domanda, che nasce dal timore: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?» (Mc 4,41; Mt 8,27; Lc 8,25).

Non si tratta quindi della soluzione immediata a un problema, pure inclusa nell’evento portentoso, nel qual caso saremmo di fronte a qualcosa di arbitrario, a una sorta di “capriccio” di Dio, ma di offrire un segno, così come ad esempio accade nella vicenda della guarigione del paralitico. Dio infatti, insegna Dietrich Bonhoeffer, non esaudisce i nostri desideri, né soddisfa i nostri bisogni, ma è fedele alle sue promesse. È la Parola di Dio che sospinge la nostra riflessione e ci consente di accedere ad un livello più profondo di penetrazione nella struttura del miracolo-segno: «Veduta la loro fede, disse: “Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi”. Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: “Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?”. Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: “Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? Che cosa è più facile, dire: ‘Ti sono rimessi i tuoi peccati’, o dire: ‘Alzati e cammina’”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: “Io ti dico” esclamò rivolto al paralitico “alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”. Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio. Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose”» (Lc 5,20-26, dove il testo greco di quest’ultimo versetto parla di «paradossi»). Avremo compreso il senso del miracolo, allorché saremo in grado di esprimere questa esclamazione dinanzi al pane consacrato o alle parole, concretamente, cioè sacramentalmente, pronunciate: «Ti sono rimessi i tuoi peccati!».

Ma di cosa sarebbe “segno” il miracolo? Rosenzweig non ha pudore di rispondere che qui si tratta della «provvidenza di Dio», solo il ricorso alla figura del Dio provvidente può aiutarci a superare la visione dei pagani e a oltrepassare «la loro magia che esegue un imperativo proprio dell’uomo […]. E proprio la provvidenza illimitata, il fatto che realmente non cade un capello dal capo dell’uomo senza che Dio lo voglia, è il nuovo concetto di Dio che la rivelazione ci reca: è il concetto mediante il quale il suo rapporto con il mondo e l’uomo viene stabilito e fissato con una univocità ed una assolutezza totalmente estranee al paganesimo. Il miracolo dimostrava a quel tempo proprio ciò su cui la sua credibilità pare oggi naufragare: l’essere il mondo regolato da leggi predeterminate».

Da ultimo, a noi, come alla generazione malvagia e incredula di cui parla il Vangelo, proprio in questo periodo non sarà dato alcun segno, se non quello di Giona: «Allora alcuni scribi e farisei gli dissero: “Maestro, da te vogliamo vedere un segno”. Ed egli rispose loro: “Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra”». A questo “segno” pasquale si devono rivolgere la nostra preghiera e la nostra devozione, mentre invochiamo la liberazione.

* professore ordinario di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Lateranense

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