La liturgia alla prova del “digiuno eucaristico”

di Giovanni Grandi *

La fede e il contagio

Oggi un pezzo che ci interroga molto. L’autore, non così favorevole alle liturgie in streaming o su piattaforme – questa è anche la mia posizione (Ndr) – ci stimola a trovare forme nuove per le celebrazioni anche in presenza, dove “nuovo” non significa fautore di gesti o simboli diversi e stravaganti, ma capaci di dire il Vangelo “antico e sempre nuovo” nell’oggi.

La pandemia che stiamo attraversando ha indubbiamente un carattere “apocalittico”, nel senso filologico di “rivelativo”. Non dovremmo trascurare il fatto che le “catastrofi”, al di là appunto degli aspetti di male e di sofferenza che comportano, rappresentano anzitutto l’irruzione di grandi novità in una storia abitudinaria. Ogni novità che si prospetta alla vita è sempre una apocalisse, perché proponendo un cambiamento porta a prendere maggiore coscienza delle routine, svelando tanto il buono quanto il cattivo che c’è in esse. «Tentare – scriveva Tommaso – propriamente è mettere qualcuno alla prova, e lo scopo immediato di qualunque tentazione è conoscere». E con la sua consueta prospettiva costruttiva, proseguiva segnalando che ogni rivelazione, può volgersi al meglio, «come nel caso in cui qualcuno voglia sapere a proposito di un altro come sia, tanto nel sapere, quanto nella virtù per farlo procedere ulteriormente» (Summa Theologiae, I, q. 114, a. 2).

Da molti punti di vista ci ritroviamo allora in un passaggio, appunto, apocalittico, che non ha solo una valenza individuale – come le novità, piccole e grandi, gradite o sgradevoli che ordinariamente ciascuno affronta – ma anche sociale: tutti stiamo rivedendo simultaneamente le medesime abitudini e tutti ci stiamo chiedendo come cambieranno le cose in futuro, nella percezione che “nulla sarà più come prima”. Dobbiamo però considerare attentamente il fatto che se le apocalissi non sono in nostro potere, perché appunto si tratta di novità inattese che destabilizzano – e l’essere umano, come l’antropologia insegna fin dall’antichità, predilige stabilità e prevedibilità –, il come procedere oltre la rivelazione è invece affidato alla nostra responsabilità. Le cose, in futuro, «non saranno più come prima» nella misura in cui trarremo delle conseguenze dalle rivelazioni, abbandonando alcune abitudini o il modo in cui si configuravano e ristrutturando il vivere secondo il meglio che l’evento apocalittico avrà consentito di scorgere.

Per i cristiani è dunque connaturale guardare alle apocalissi come a uno dei linguaggi di Dio, purché appunto – come segnalano altri contributi di questo volume – non le si legga nel senso improprio di “punizioni”.

Ciò che sta vivendo in questo tempo un passaggio rivelativo potentissimo nell’esperienza dei cristiani, e dei cattolici in particolare, è la liturgia eucaristica, che certo rappresenta l’abitudine rituale più consolidata per la maggior parte dei credenti. Nella sospensione delle Messe ci si è scoperti poveri di altre forme liturgiche che potessero continuare ad esprimere «l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo […] opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa» (Sacrosanctum Concilium n. 7). Il Concilio Vaticano II ha ribadito in tempi “non sospetti” che esistono diverse forme di preghiera-azione, come in primis la liturgia della Parola. Eppure ciò a cui abbiamo assistito dentro un tempo che, per quanto faticoso, era chiaro che sarebbe stato a termine, è stata una generale resistenza al “digiuno eucaristico”, spesso espressa dal moltiplicarsi di “spettacoli eucaristici” teletrasmessi. Povera la soluzione, ancor più desolante – va detto con franchezza – la rassicurazione giunta da alcuni presuli per cui l’assistere alle funzioni online avrebbe soddisfatto il «precetto» domenicale. Queste reazioni, come detto sopra, sono pienamente comprensibili: le apocalissi sono temute proprio perché portano con sé il rischio di ritrovarsi disarmati dinanzi alla necessità di cambiare qualcosa a cui si è affezionati per consuetudine.

In molti però – vescovi, presbiteri, laiche e laici – hanno colto e suggerito di cogliere l’invito al digiuno, incoraggiando la riscoperta di altre forme liturgiche. Quello che poteva sembrare un deserto, per molte famiglie, specie in occasione della Pasqua – evento liturgico “famigliare” per eccellenza, come sappiamo dall’antico Israele – si è rivelato essere un inatteso giardino. Attorno alla lettura della Parola un po’ ovunque singoli, coppie o genitori con figli hanno ritrovato insieme i gesti e i segni essenziali del celebrare, i tempi del silenzio, della condivisione, della preghiera comunitaria che sorge dall’essersi trattenuti in ascolto intimo dello Spirito. Molti dei più giovani hanno rivelato ai genitori qualcosa di notevole: che la Messa, così come veniva celebrata fino a poche settimane prima e come la hanno vissuta per anni, occultava anziché svelare «l’opera di Cristo». Nel percepito – che però nel rito non è affatto secondario, dato il coinvolgimento totale della persona che presuppone – la Messa era il deserto. Non dobbiamo nasconderci che lo sapevamo già: non è il Covid-19 ad aver svuotato le celebrazioni domenicali. Il punto è che ora sappiamo meglio che una liturgia può essere altro, può essere cosa viva e vitale e può esserlo facilmente. Il punto, soprattutto, è che ora lo sanno per esperienza molti dei nostri figli. Possiamo immaginare che questa esperienza rivelativa sia una parentesi da chiudere, ritornando al celebrare piatto, spesso sciatto, comunque arido di prima? Come sarà il ricongiungimento nelle comunità cristiane tra i presbiteri e quanti provengono – pur con le migliori intenzioni – da una sorta di esperienza neo-tridentina in assenza dell’assemblea e tutti coloro che, proprio grazie al digiuno eucaristico, intuiscono ora che lo stesso rendimento di grazie del pane preso, benedetto, spezzato e distribuito ha in sé una potenza probabilmente occultata dalla routine e dalla forma con cui è riproposto? Il Concilio, proprio parlando della liturgia, ha premesso che il proprio compito era quello di «meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti» (SC, n. 1): forse solo oggi, grazie a un’apocalisse popolare, diventa avvertibile la portata reale di quelle parole, di cui la Chiesa è chiamata ad essere all’altezza.

* professore associato di filosofia morale presso l’Università di Trieste

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