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Cosa vuol dire credere?

di Giuseppina de Simone *

La fede e il contagio

«Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29). Il mistero della Pasqua, della vittoria della vita sulla morte, passa attraverso la fede. La Pasqua è già nell’affidarsi di Gesù al Padre sulla croce, totalmente e senza riserve, un abbandono dentro il quale è l’abbandono senza più parole che sperimentano quanti sono umiliati e schiacciati dalla prepotenza del potere in tutte le sue forme, quanti sono piegati da un dolore senza speranza. Ma l’esperienza trasfigurante della Pasqua è anche nella fede dei discepoli, nel loro fidarsi allorché incontrano il Signore, ed è un fidarsi che conduce oltre il disorientamento e l’angoscia, oltre la dispersione e il tradimento. E perché l’annuncio della Pasqua, il lieto annuncio del Vangelo, risuoni fino ai confini della terra, è richiesta ancora la fede, una fede che, anche se piccola come un granello di senape, può smuovere le montagne. Ma che cosa è la fede? Sono tanti i modi in cui la si sente definire. È un atto di volontà fatto per alcuni di eroismo, per altri invece di paura. È una domanda e una implorazione che nasce dal non sapere più a chi rivolgersi. È adesione a una verità che tutto comprende e tutto spiega. È luce oltre le tenebre dell’incertezza, sicurezza così abbagliante da non lasciare spazio alla ricerca, alla discussione, al confronto. Che cosa, infine, vuol dire credere? In questi giorni di emozioni intense e contrastanti, nei momenti di dolore vissuti senza frontiere e come comunità umana, la fede sembra essere tornata per strada e nelle case, nelle giornate vissute stando distanti; e questo proprio quando le forme e i luoghi della fede condivisa non erano praticabili nella consueta modalità sperimentata fin qui come ovvia. Si è reinventata la fede, ha preso fiato, ha ritrovato voce e vigore nell’implorazione, nei gesti semplici della preghiera di popolo, nell’ascolto interiore della Parola celebrato in case riscoperte come chiesa domestica, nella comunicazione controversa e “benedetta” resa possibile dalla mediazione dei social. Si è rinvigorita nell’impegno tenace di chi ha saputo trovare i modi per continuare una pastorale della prossimità, facendo avvertire la vicinanza della comunità, la possibilità di continuare insieme il cammino, di condividere ansie e speranze, di portare insieme la sofferenza e di non dimenticare il valore del sorriso. Ha trovato forza e coraggio nella generosità di chi si è speso a fianco dei più deboli; di chi ha saputo vivere la cura dei gesti quotidiani quotidiani con semplicità e speranza, mandando indietro l’angoscia e la tristezza; di chi ha lavorato senza sosta e talvolta “a mani nude” nell’assistenza ai malati; di chi ha continuato a lavorare, pur tra mille timori, per garantire i servizi essenziali per tutti; di chi si è messo in gioco nel proprio lavoro a servizio degli altri, apprendendo modalità nuove che non avrebbe mai immaginato di poter usare; di chi ha reso fruibili per tutti i linguaggi della cultura e dell’arte; di chi ha trovato forme nuove per far crescere il pensiero, la capacità di riflessione, l’audacia della progettualità.

La fede però è stata anche usata, in questi giorni, esibita in maniera strumentale. È stata invocata per improponibili, quanto pericolose, crociate: per guadagnare consenso e potere; ridotta ad una logica di contrapposizione che non le appartiene, come se per dirsi credenti si avesse bisogno sempre e comunque di un nemico da combattere. O è stata agitata in forme miracolistiche. La fede, ce lo ricorda il Vangelo, è l’“opera” che Dio chiede a noi: il fare e, prima ancora, l’essere che ci apre alla salvezza. C’è una innegabile responsabilità nella fede, nel modo in cui la professiamo e la viviamo. La fede è scelta, adesione, impegno, richiede apertura, disponibilità a mettersi in gioco, capacità di ascolto, coraggio di cambiare. Ma la fede è anche, e più ancora, l’opera di Dio in noi. È un cammino in cui il Signore affianca i nostri passi, ascolta le nostre paure, ci spinge a trovare le parole per esprimerle, non teme il nostro bisogno di “segni” perché lo conosce bene, ma, standoci accanto, in un silenzio che può disorientare ma che occorre imparare ad ascoltare, e con una presenza che sfugge alla presa dei nostri bisogni, anche dei più alti e più nobili, apre i nostri occhi, e soprattutto il nostro cuore, all’incontro con Lui. Perché la fede è questo: è incontro. E, come ogni incontro autentico e profondo, non può essere reso funzionale ad altro. A che cosa serve la fede? A nulla, potremmo dire. Non serve a colmare i nostri bisogni, a dissolvere le nostre paure, non serve a trovare un principio di spiegazione o la causa di tutto, bene o male che sia, non serve ad eliminare la sofferenza. La fede non colma i nostri vuoti. Ma proprio per questo è molto di più. Opera di Dio in noi. Quando smetteremo di chiedere dei “segni”, quelli che noi vogliamo o ci aspetteremmo, e sapremo fidarci, «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre», allora si apriranno i nostri occhi e il nostro cuore al riconoscimento dei segni del Suo amore infinito, sorprendente e tenace. E allora, nel Suo nome, ossia in Lui e nel Suo amore, scacceremo «i demoni», parleremo «lingue nuove», nessun veleno potrà farci morire, le nostre mani sapranno guarire e beneficare (cfr. Mc 16,17-18) e sapremo resistere nella fatica, perseverare nella corsa «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2). 

La gratuità è la forza rivoluzionaria della fede.

* professore professore ordinario di Filosofia della religione presso la Facoltà Teologica di Napoli – Sezione «San Luigi». Dal febbraio 2017 dirige la rivista Dialoghi

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