La fede e il contagio
Inizia con questo articolo di Giuseppe Dalla Torre *, a cui seguiranno altri – tutti apparsi su La fede e il contagio, Quaderni di dialoghi, speciale 2020 – la riflessione sulla Chiesa in questo tempo di pandemia
Hanno fatto discutere, e continueranno a far discutere, le misure adottate dalle pubbliche autorità con cui, per frenare la diffusione del coronavirus, si sono fortemente limitate le libertà fondamentali garantite dalla Costituzione e dall’ordinamento europeo. Sorprendentemente non sono mancate critiche, a volte serrate, sui limiti rigorosissimi posti alla libertà di culto; dico sorprendentemente, perché in una società largamente secolarizzata come la nostra una consistente protesta per i divieti posti in materia non era pensabile. Che avesse ragione Gilles Kepel con la sua revanche de Dieu?
In particolare sui provvedimenti governativi si sono levate eccezioni sia nella sostanza che nelle procedure seguite. Per la sostanza, si è in definitiva osservato che quella di culto, e quindi di religione, è una libertà incomprimibile, o che comunque puòconoscere costrizioni ragionevolmente limitate. Quanto alle proceduresi è criticato, soprattutto in casa cattolica, il fatto che il Governo abbia agito non solo senza concordare le restrizioni con la parte ecclesiastica, ma senza neppure comunicarle previamente; più radicalmente, si è rilevato che l’autorità politica avrebbe deciso in un ambito, come quello degli atti di culto, in cui è assolutamente incompetente. Insomma: si sarebbe dato a Cesare quel che è di Dio. Sempre in casa cattolica, si è talvolta prospettata la lesione di un diritto fondamentale del fedele: quello ai sacramenti (can. 213 codice canonico).
Le reazioni accennate sono ben comprensibili, se si considera la sofferenza che prova il credente nel vedersi privato di quotidiani strumenti di sostegno spirituale, e considerato anche il fatto che il sentimento religioso trova – a prescindere da ogni più radicale considerazione teologica – una necessaria esplicitazione nella dimensione comunitaria. Esse tuttavia si prestano ad alcune considerazioni.
In primo luogo, è vero che nella Chiesa c’è un diritto ai sacramenti; ma è anche vero che questo diritto può trovare condizionamenti e limiti (non solo ma) anche per ragioni oggettive di tempo e di luogo, come nel caso la tutela del diritto naturale alla salute ed alla vita stessa dei consociati. Non a caso il can. 843 § 1 parla di un diritto “opportunamente” richiesto.
Quanto all’ordinamento dello Stato, non c’è dubbio che la libertà religiosa è un diritto fondamentale e che, a norma dell’art. 19 Cost., l’unico limite espresso è quello dei “riti contrari al buon costume”. Ma non c’è altrettanto dubbio che esistono limiti ulteriori, impliciti nel sistema costituzionale, a cominciare da quelli derivanti dagli altri diritti fondamentali (alla vita, alla salute, ecc.). Non c’è la prevalenza di uno sugli altri; è necessario un contemperamento ragionevole. Nel caso specifico i provvedimenti contestati non hanno radicalmente negato la libertà religiosa, né hanno proibito gli atti di culto pubblico; hanno provvisoriamente nel tempo interdetto gli atti di culto collettivi, che è altra cosa. Non a caso, dopo un primo improbabile provvedimento di “chiusura delle chiese”, davvero gravemente lesivo del diritto in questione, le autorità competenti si sono precipitare a precisare che gli edifici di culto potevano rimanere aperti e i fedeli singolarmente, e con le dovute precauzioni, potevano continuare ad accedervi.
Del resto lo stesso Vaticano II, affermando in maniera rigorosa il diritto di libertà religiosa nella dich. Dignitatis humanae, ritiene legittime le limitazioni del suo esercizio quando ciò sia conforme all’ordine morale oggettivo (n. 7). Circa le modalità di adozione dei provvedimenti in questione – e al di là del più generale problema della legittimità costituzionale degli atti governativi con cui si sono ristretti diritti fondamentali –, certamente è stata improvvida la loro adozione senza un convenire con la parte ecclesiastica (ma direi più in generale con le autorità delle varie confessioni religiose). Il fatto si può forse capire per il clima di disorientamento e la concitazione nascente dalla inaudita progressione aggressiva del virus e dall’urgenza di intervenire immediatamente per la salvaguardia di un bene primario qual è quello della salute pubblica. Ma certamente secondo le norme e prima ancora i princìpi che ispirano il nostro ordinamento si sarebbe dovuto procedere in maniera diversa, coinvolgendo l’altra parte. E ciò non per mania clericale di potenza o secondo le pretese della sovranità – come qualcuno ha pure insinuato –, ma per rispondere alla logica sottesa al testo costituzionale, che è poi quella esplicitata nell’art. 1 del Concordato, per il quale lo Stato e la Chiesa sono impegnati “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”. È questa tra l’altro una direttiva che viene anche dal Vaticano II, in particolare nel § 76 della Gaudium et spes.
Di qui la iniziale, pronta adesione dell’episcopato italiano alle prescrizioni dell’autorità civile, cui è però seguita – come noto – una fase critica, perché all’allentamento dei vincoli in alcuni ambiti di vita non è parallelamente seguito altrettanto nell’ambito del culto. Che senso ha aprire i musei ma mantenere la proibizione per il culto? Ogni limitazione di diritti fondamentali è legittima se ragionevole e bilanciata col sacrificio di altri diritti fondamentali. Ma a questo proposito giova una considerazione più generale. L’atteggiamento responsabile dell’episcopato italiano dinnanzi alle prescrizioni dell’autorità civile non è solo indice di piena comprensione delle preoccupazioni e delle responsabilità di questa. A mio avviso è un indicatore dell’avanzare, nell’esperienza concreta, di una diversa dimensione dei rapporti della Chiesa col mondo che proprio la Gaudium et spes, recuperando la visione della A Diogneto, propone: la Chiesa nel mondo, più che la Chiesa e il mondo.
Da giurista so bene quali sono state le ragioni storiche che hanno indotto (se non costretto) progressivamente a ridurre e rafforzare una visione prettamente giuridica, interistituzionale, internazionalistica, dei rapporti della Chiesa con le comunità politiche, e non è detto che tali ragioni siano completamente scomparse. Ma vedo il recupero di una concezione della Chiesa come popolo di Dio che vive nei popoli di questa terra, che di sicuro è maggiormente vicina alle esperienze dei secoli più lontani della cristianità (e per certi aspetti della stessa età medievale), e che altrettanto certamente è portata avanti con forza, nelle parole e nell’azione, da papa Francesco. Il primo Papa – non mi stanco mai di ripeterlo – davvero figlio del Concilio; gli altri, grandissimi, ne sono stati i facitori.
*Giuseppe Dalla Torre è stato professore ordinario di Dirittto canonico ed ecclesiastico presso la LUMSA, di cui è Rettore emerito.